Per ambizione o per paura?
La consistenza in cucina
Me
lo sono chiesto più volte, come credo facciano molte altre persone, di questi
tempi: perché chiunque approccia la cucina o il mondo del cibo, quasi sempre vuol
diventare “chef” e non cuoca o cuoco? Lo fa per ambizione o per paura? La prima
risposta è certamente offerta dall’estesa visibilità sui media attribuita agli
“chef alla moda”: in tanti vorrebbero comparire in video così di frequente e
ovviamente accedere a una notorietà che spesso è associata a lauti guadagni. La
seconda risposta necessita forse di spiegazione. Per paura intendo il timore di
apparire troppo normali, e perciò banali. Perché saper fare da mangiare è diventato
ordinario se non associato all’arte della composizione del piatto. Posso
capirlo per chi ha un ristorante: in un mondo di apparenza la bellezza del
piatto ha assunto una grande importanza. Ma per chi cucina in famiglia, o
comunque per passione, la bellezza diventa secondaria, se non del tutto
trascurabile rispetto ad altri parametri ben più importanti. E poi mettiamo
pure che un buon piatto se anche bello raggiunga la perfezione, ma prima di
tutto bisogna saperlo preparare a puntino. Insomma, la sostanza è sempre ciò
che più conta, e perché la pietanza sia tale anche all’occhio esperto, non si
può pensare solo al sapore – valore fondamentale – ma alla qualità e salubrità
degli ingredienti. Altra nota dolente. Ancora troppo di frequente si vedono
piatti di una bellezza disarmante dietro ai quali, però, si nasconde il
dilettantismo o la superficialità nella scelta delle materie prime. «Sai,
ho usato questo ingrediente certificato che rappresenta il massimo della
qualità!».
E così mi è successo più volte di aver chiesto a chi ostentava tutta la sua
certezza in tal senso, se per caso aveva approfondito la natura di quell’ingrediente,
il metodo produttivo o le regole imposte dal disciplinare di produzione. La
risposta si è infranta sul muro della certificazione, come se guadagnare un
marchio di qualità significasse autoassolvere a priori quel prodotto attribuendogli
un lasciapassare universale, irrevocabile. Se si ritiene di essere davvero
attenti è bene anche essere un po’ curiosi e farsi un giretto in rete cominciando
a non dare per scontato un bel nulla. I disciplinari sono sempre pubblicati e
raccontano molte più cose dello “scudetto” di certificazione. E per chi vuol
fare cucina, soprattutto quando si professa attento ed esperto, è sempre bene
controllare con cura la natura dei prodotti, la provenienza, i metodi colturali
o di allevamento, i processi di trasformazione e tutto ciò che determina l’effettivo
valore di quell’ingrediente. Altrimenti si diventa solo pappagalli mediatici,
autocelebrativi, oppure semplici diffusori di messaggi irreali e distorti figli
della superficialità e dell’inconsistenza.
Perseguire
la sostanza, la coerenza e la credibilità della cucina, dovrà tornare a essere l’obiettivo
primario per ricostruire o ravvivare il patrimonio gastronomico di una civiltà.
L’estemporaneità e l’estro forzato rimarranno tali, mentre la consistenza più
autentica rigenererà l’Arte trasformandola in patrimonio.
Bravissimo, concordo in pieno :)
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