In Alta Valle Scrivia a scuola di formaggetta locale





Imparare a fare il formaggio sembra quasi una cosa da professionisti: uno che va a vivere in campagna per fare il contadino o l’allevatore e per questo impara a trasformare il latte in qualcosa di conservabile. È una lettura possibile, certo, anche se chi facesse questa scelta dovrebbe pensare a ben altro che imparare a fare il formaggio: la vita in campagna è molto diversa dalla favoletta della vecchia fattoria che piace tanto alla pubblicità.
Il nostro corso aveva un altro scopo, tutto diverso, cioè quello di avvicinare chi si appassiona al cibo a chi lo produce: conoscere davvero il procedimento di trasformazione per capire un po’ meglio cosa fa chi lo esegue e cosa mangia il destinatario di quel lavoro.


Una quindicina di “aspiranti casari” si sono ritrovati in Alta Valle Scrivia, nell’azienda agricola Autra di Olmi di Savignone, da Carla e Alfredo Bagnasco.
Nel panorama agricolo del Genovesato l’Autra può definirsi un’azienda storica fra quelle intraprese da zero, poiché Alfredo ha cominciato l’attività circa trent’anni fa e da allora ha costruito, con l’aiuto di Carla, questa sua realtà che oggi si basa sull’allevamento di bovini da latte di razza Cabannina (presidio Slow Food) capre, qualche maiale, asini, galline e altri animali di bassa corte, nonché alcuni filari di rose per la produzione di nobile sciroppo e preziosa gelatina. Col tempo è stato aperto il caseificio e l’agriturismo e oggi l’Autra produce formaggette, ricotta e caprini certificati biologici, oltre ad altri prodotti “bio” impiegati nell’agriturismo.   


Il corso, organizzato dalla Condotta Slow Food Genova – Giovanni Rebora, è stato incentrato sulla produzione della formaggetta tipica dell’Alta Valle Scrivia, un formaggio che in quel territorio i documenti datano almeno dal Cinquecento.
Si tratta di un formaggio a pasta morbida con circa una ventina di giorni di maturazione: pezzatura fra i 400 e i 500 grammi, scalzo fra due e tre centimetri, diametro di circa 12/14 cm. Il sapore è semplicemente di formaggio fresco, delicato, senza particolari accenti ma con una sua precisa personalità. E poiché oggi c’è chi sente in un formaggio i più svariati “sentori”, la miglior cosa è invitare all’assaggio diretto per valutare da sé.



La storia della formaggetta di questa valle è assai lunga e prende davvero spunto dal territorio, dal lavoro che vi si esercitava e dal tessuto sociale che per secoli lo ha caratterizzato.  In questo mondo di crinali scoscesi, versanti ripidi e terrazze  oggi abbandonate,  non ci sono mai state grandi stalle, allevamenti rilevanti, animali da latte per eccellenza. Secoli fa si praticava la pastorizia dei pochi capi per ogni famiglia, spesso non più di uno, al massimo due. E quei bovini non erano scelti per loro specifiche attitudini, come succede oggi, allora dovevano fare tutto, da tirare l’aratro a produrre stallatico. In molti casi i lavori pesanti si facevano fare ai buoi, ma in un contesto difficile l’economia complessiva non sempre consente di mantenere un bue nella stalla e quindi si fa fare tutto alla vacca. Così l’animale tira l’aratro, traina la lesa – slitta per letame  fieno ecc. –, fa il vitello, produce un poco di latte e rilascia le deiezioni necessarie per coltivare la terra, il letame, cosa assolutamente fondamentale in altri tempi.


Documenti alla mano, quei bovini di dimensioni ridotte, e così “sfruttati”, in media non davano più di 5/6 litri di latte al giorno, che veniva in gran parte destinato alla produzione della formaggetta, data l’impossibilità a conservarlo altrimenti e men che meno a smerciarlo, soprattutto nelle zone marginali. Col tempo si organizzò un servizio di raccolta capillare del latte, che tuttavia, soprattutto nella stagione calda, doveva comunque essere sospeso sia per ragioni di minor richiesta, sia per ovvie difficoltà di conservazione. La gente era così costretta a trasformare tutto il latte in formaggio e in quei mesi di inizio estate si accumulavano forzatamente le scorte per il proprio consumo. Una rete di vendita delle formaggette non è mai esistita e la commercializzazione era affidata ai soli produttori, che ciclicamente si recavano nei borghi più vicini per portare a vendere il proprio prodotto al negozio o a pochi clienti locali. Solo sporadicamente capitava di fare qualche vendita a camminatori che frequentavano i monti o in rare occasioni in cui si teneva un mercato. Ma nonostante questo la formaggetta è riuscita ad arrivare a noi come prodotto vivo e attuale, vincendo perfino la grande emorragia di contadini che ha prodotto lo spopolamento totale di molti villaggi marginali di questi monti.


Insomma: la formaggetta della Valle Scrivia è viva e vegeta, anche se conta pochi produttori, per fortuna piuttosto giovani.
Carla e Alfredo non si sono limitati a mostrare come si fa questo formaggio dalla storia antica ma hanno coinvolto i partecipanti nella produzione di una piccola partita di formaggette, realizzate ad hoc, in modo che ciascuno potesse davvero “metterci le mani”, sperimentare in diretta tutte le fasi di produzione, a partire dal conoscere le vacche di questa razza, fino a vederne realizzato il prodotto finito.


La storica attitudine femminile verso questo lavoro, almeno in ambito locale, è stata ulteriormente confermata anche durante il corso. Sono state infatti le donne ad aver per prime messo mano al procedimento, senza alcuna esitazione, dando quasi l’impressione di compiere gesti in qualche modo familiari, oppure semplicemente attinenti alle proprie capacità. 

E anche la storia conferma questo passaggio, tanto è vero che nella famiglia contadina la produzione del formaggio era riservata quasi esclusivamente alle donne, che conoscevano alla perfezione ogni fase del procedimento. 




Fare il formaggio non è stato solo un divertimento di mezza giornata ma un modo per tentare di entrare in contatto diretto con il mondo di cui esso è una delle espressioni. La formaggetta racchiude in sé saperi tramandati e apporti personali; economia rurale e commercio attuale; radici storiche e prospettive future. 



Non solo un formaggio ma il frutto e l’espressione di una vocazione locale radicata, e si spera una delle ragioni che consentano, a chi ha la passione per farlo, di vivere dignitosamente in quei territori difficili, restituendo a noi tutti buoni cibi e benefici comuni evidenti e preziosi.


Alfredo, Carla e lo staff dell'Autra


Sergio Rossi, Il cucinosofo
Montoggio, giugno 2012


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