Le tradizioni di Natale sui miei monti
Soprattutto in passato, in ogni famiglia il Natale si
celebrava come si poteva, tanto più in un territorio montano come quello cui mi
riferisco. Siamo in Liguria, alle spalle di Genova, poco più di mezzora dal
centro cittadino; per la precisione a Montoggio, il mio paese, e in due valli
che gli stanno alle spalle, val Pentemina e Valbrevenna, punteggiate da diverse
frazioni talvolta anche isolate.
Alcune usanze natalizie erano condivise e diffuse, anche se
spesso declinate diversamente in base alle possibilità delle diverse famiglie. Mi
riferisco, per esempio al pandolce, il classico dolce genovese di Natale. Su
questi monti si faceva più spesso la cosiddetta figassa duçe, cioè una sorta di pane schiacciato arricchito da
zucchero, burro e uvetta.
Nulla a che vedere con l’odierno pandolce, ricco di
uvetta, canditi e pinoli, bensì la forma arcaica di un pane raddolcito prodotto
secondo un’unica ispirazione ma decine di declinazioni, diverse da una famiglia
all’altra. Alcuni anziani mi raccontavano, per esempio, che a casa loro si
usavano le prugne secche autoprodotte anziché l’uvetta, e lo zucchero era
sempre impiegato con estrema parsimonia. Tutti facevano la focaccia dolce col
cosiddetto crescente, qualcosa di
simile al lievito naturale che veniva conservato anche per lunghi periodi nel
cassone della farina.
Tornando alle usanze di Natale, su questi monti non erano
tante le famiglie in cui si faceva l’albero. Chi lo faceva ricorreva sempre al
ginepro selvatico, addobbandolo con caramelle, torroncini, mandarini, fichi
secchi e qualche fiocco di cotone a simulare la neve.
Quanto al cibo delle feste, alcuni piatti rientravano nella
più comune e diffusa tradizione: i ravioli col tuccu, sugo di carne cotto per ore a base di soffritto e carne di
manzo, il cappone o la gallina bollita e la focaccia dolce. Chi poteva
permetterselo cominciava dalla colazione del mattino con cioccolata liquida e
biscotti del Lagaccio, oppure latte e
pandolce. Costoro a pranzo iniziavano con i salumi, spesso salame autoprodotto,
oppure testa in cassetta, un insaccato a base di carni ricavate dalla testa del
maiale, lessate con spezie e aromi (se proprio fortunati galantina, lo stesso salume ma confezionato con carni più nobili).
Come
primo piatto mangiavano i ravioli e a seguire il cappone bollito con la
mostarda, la giardiniera, i funghi sott’olio oppure la scorzonera saltata in
padella.
Col brodo di cappone o di gallina la sera si preparava la
minestra con i maccheroni genovesi, classica pasta da fidelaro (pastaio) da comprare nei negozi. È un formato
tradizionale che somiglia a lunghe penne lisce (circa 25 cm) e che, soprattutto
nelle famiglie agiate di Genova, si usava anche per i timballi.
foto Harriet Metcalf |
Nel brodo per i maccheroni si metteva qualche pezzo di
salsiccia e talvolta dei ravioli. Sempre la sera, chi poteva mangiava un
cappone o un tacchino arrosto con patate e scorzonera fritte.
Capitava anche che avanzasse della minestra della sera e
talvolta i maccheroni estratti dal brodo finivano riusati come lasagne, distesi
a strati in una teglia, alternati a besciamella e sugo di carne, e infine
passati al forno.
Quanto sopra non rappresenta certo l’insieme delle
tradizioni gastronomiche natalizie, ma solo una parte di esse, forse la più
comune.
Altre consuetudini riguardavano i rituali della tavola. Per
esempio l’apparecchiatura del pranzo di Natale rimaneva anche la sera, cioè non
si “toglieva tavola” per poi riallestirla, ma ci si limitava a togliere le
briciole lasciando tutto com’era per la cena.
Inoltre, il pane avanzato il giorno di Natale si conservava
con cura perché ritenuto curativo per alcuni malanni come il mal di gola o la
tosse. Nel caso un familiare avesse preso un raffreddore con infiammazione
della gola, gli si sarebbe somministrato un pezzetto di pane di Natale.
Infine due usanze legate in qualche modo alla caccia. La
prima era il cosiddetto tiro al gallo,
una gara di tiro a un piccolo foglio di carta che doveva essere colpito con il
maggior numero possibile di pallini. Il vincitore si portava a casa un bel
gallo in carne e ossa, ovviamente vivo.
La seconda usanza, allora assai praticata, era il cosiddetto
uccelletto di Natale. Per tradizione
si riteneva che qualunque uccellino ucciso il giorno di Natale sarebbe rimasto
integro senza mai decomporsi. Pertanto, molti cacciatori cercavano di catturare
un esemplare di bell’aspetto per poi appenderlo in casa e conservarlo come
ricordo di Natale.
Purtroppo a farne le spese furono, per esempio, i Martin
pescatori, che per la loro bellezza erano assai ricercati. In seguito, le
giuste regolamentazioni della caccia impedirono questa pratica che oggi rimane
solo un ricordo. Tuttavia, sarebbe sbagliato giudicare quelle tradizioni a
posteriori, poiché il contesto in cui maturarono e si praticarono era
completamente diverso dall’attualità. Troppo spesso si assiste a celebrazioni
del mondo rurale che dipingono le tradizioni con troppa poesia e talvolta fantasia.
Il mondo di allora era figlio di quel tempo, di quell’isolamento, di quella
cultura tramandata da secoli e non ancora stravolta da ciò che comunemente
chiamiamo progresso. In quei paesi in mezzo ai monti, il Natale era certamente
un giorno di festa che tutti cercavano di onorare, ciascuno come poteva. E
anche in condizioni di pura sussistenza, a Natale era concessa qualche piccola
trasgressione.
Si impara sempre qualcosa leggendo i tuoi post e i tuoi libri.
RispondiEliminaSi impara sempre qualcosa leggendo i tuoi post e i tuoi libri.
RispondiEliminagrazie!
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