Pralines fondantes: simbolo dell’arte confettiera genovese
Osservo
il maestro confettiere alla bassine
branlante: si muove con eleganza e leggerezza. Dosa la fiamma, controlla lo
sciroppo nel lavesino e ne regola il
getto. Si ferma un momento e fa roteare la bassine
in modo che lo zucchero liquido ricada su ognuno dei semi da pralinare e il
contenitore mantenga una temperatura costante.
Poi riprende il movimento ondulatorio e le mandorle saltano sul fondo della bassine creando un suono inconfondibile.
Poi riprende il movimento ondulatorio e le mandorle saltano sul fondo della bassine creando un suono inconfondibile.
Cerco di capire la
ritmica, la cadenza dei movimenti, il senso stesso del lavoro meticoloso e
puntuale grazie al quale, alla fine, ogni singola mandorla verrà ricoperta da
un morbido strato di zucchero.
Provo a comprendere il procedimento, ma non
riesco a considerare le infinite variabili che lo governano: il grado di
cottura dello sciroppo, la sua metamorfosi a contatto con il calore, la
temperatura ambiente, i movimenti della bassine.
No, impossibile.
Da
Romanengo le pralines fondantes si
fanno ancora così, poche per volta, tutte a mano e perciò solo a dicembre, come
da duecentotrentacinque anni. È che quando si vedono in bella mostra nella
vetrina dei due negozi genovesi, non si riesce a comprendere che siano frutto
di tanto sapere. Forse è l’ultimo prodotto fatto ancora con le più antiche e
raffinate tecniche della confetteria, vera e propria arte che raggiunse la
perfezione nel XVIII secolo, in Francia.
Assistere
alla lavorazione con la bassine branlante
è come fare un salto indietro nel tempo ed entrare in una pagina dell’Encyclopedie de D'Alembert et Diderot,
improvvisamente animata.
Ogni
ciclo di lavorazione dura quasi tre ore per circa sei chili di prodotto finito.
E solo così si giustifica il costo finale delle pralines fondantes fatte in questo modo. Che poi se il risultato
non fosse irraggiungibile, il procedimento all’antica da sé non basterebbe a
giustificarne il prezzo. Invece la prova in bocca è indescrivibile.
Pensare
che nel terzo millennio ci si possa trovare di fronte a un prodotto di assoluta
eccellenza ottenuto con le più raffinate e perfezionate tecniche di un’arte
quasi scomparsa, è qualcosa che dovrebbe non solo destare meraviglia, ma anche
far riflettere sul valore più autentico che esso rappresenta. In quei gesti
ritmici c’è la storia della confetteria, l’evoluzione di una pratica
artigianale capace di infrangere il muro che la divide dall’arte. Finché ci
sarà chi saprà agitare una bassine,
il legame con la storia sarà garantito; e non per volgere malinconicamente lo
sguardo all’indietro, bensì per godere dei frutti di una tradizione a cavallo
fra la perfezione artigianale e l’arte.
Pietro
Romanengo, ultimo rappresentante di una dinastia di confettieri con oltre due
secoli di storia, mi ha raccontato che suo padre Giuseppe associava a questi
dolcetti una curiosa storia legata alla loro origine. Un certo
Lasagna, genovese, capocuoco di César de Choisuel, duca di Choiseul e conte di
Plessis-Praslin, pare fosse intento a caramellare una partita di mandorle. Uno
spiacevole inconveniente – forse la svista di un collaboratore inesperto – lo
costrinse a rimediare al danno in extremis, ma che il risultato cambiò
completamente con grande disappunto del Maestro Lasagna. Tuttavia, superata la
prima arrabbiatura, egli si accorse che l’esito di quel procedimento inconsueto
non era poi così male e decise di proporre al suo Signore i dolcetti
incriminati. Il Conte apprezzò così tanto quelle nuove creature che pretese di
averle costantemente in tavola, associandole per sempre al suo nome.
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